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L’antica Arte della Tessitura

by LUISA NARDECCHIA
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Assunta Perilli all'opera

Siamo andate a Campotosto a trovare Assunta Perilli nel suo Laboratorio di Tessitura, e qui abbiamo scoperto la magia di un’arte antichissima. È stato come entrare in una macchina del tempo: siamo tornate indietro di un paio di secoli, ma sempre… tra una chiacchiera e l’altra, tra una risata e l’altra, proprio come le “nonne” di Assunta.

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Non saprei dire quante volte ho spiegato a scuola l’Odissea, nelle mie classi.

E quante volte ho raccontato di Penelope che tesse la tela per aspettare il ritorno di Ulisse.

Ma ho capito veramente questo mito solo quando ho visto un “vero” telaio.

Un vero telaio è una macchina degna di Leonardo, una macchina antichissima fatta di subbi, licci, liccetti, navette e bobine, rarissima e complessa, al punto che un telefono cellulare di ultima generazione al confronto è un giocattolino.

Assunta Perilli

La tessitura abruzzese e aquilana

La ricostruzione pregevole del M.stro Italo Picini sostiene che l’arte della tessitura abruzzese sia nata intorno al Seicento a Pescocostanzo, forse ad opera di donne turche e cipriote che qui esportarono l’arte del tappeto mediorientale.

Per secoli le necessità legate alla sopravvivenza hanno obbligato al telaio le donne abruzzesi, ed abbiamo ampia documentazione in merito.

Ma certamente è stato anche grazie al tipo di allevamento, prevalentemente ovino, che si è sviluppata l’arte della tessitura, grazie alla straordinaria produzione locale di lana.

La depurazione, la filatura e la tessitura delle lane raggiunsero nell’aquilano un alto grado di perfezione, come riferisce Gabriella Izzi Benedetti in un suo famoso contributo.

La fama della lana aquilana indusse Leonardo da Vinci  a intraprendere, nel 1499, un difficile viaggio sulla “Via degli Abruzzi”, come veniva definita nel XV secolo la via che univa Firenze a Napoli.

Il viaggio di Leonardo per la mercanzia della lana

Il viaggio di Leonardo, documentato da alcune fonti, avvenne in compagnia di un mercante suo amico, il milanese Paolo Trivulzio, cacciatore di stoffe e lane di alta qualità.

E infatti la lana dell’Aquila era la più pregiata sul mercato, tanto che alcuni centri abruzzesi avevano stretto all’epoca rapporti commerciali con Firenze e Milano, città che assorbivano sia lana, che manufatti a telaio.

Leonardo, non più giovanissimo, a quarantasei anni, affronta dunque un difficile viaggio che lo porterà prima a L’Aquila e poi a Sulmona, toccando Taranta Peligna, località di antica tradizione nella lavorazione della lana.

La “taranta” di Taranta Peligna

A Taranta Peligna si parla di tintorie e gualtiere per la frollatura dei tessuti già nel XIII secolo, ed è questa la patria della “taranta”, il copriletto damascato a due colori, con due diritti che alternano motivi floreali e geometrici, famoso in tutto il mondo per il carattere inconfondibile e le sue proprietà legate alla qualità della lana.

In seguito, sotto i Borboni, nel “distretto industriale della lana” di Taranta Peligna venivano prodotte stoffe grezze, dure e forti, scure e di lana infeltrita, tessuto utilizzato come mantello dalle truppe borboniche, che non a caso si chiamava “La Tarantina“.

Ma si producevano anche le pregiate “ferrandine” per arazzi e coperte.

I telai aquilani erano all’avanguardia nella tecnica: tecnica di cui Leonardo si appropriò immediatamente, realizzando per i tessitori del luogo dei disegni da riprodurre a telaio.

Pare infatti che ci siano coperte abruzzesi realizzate secondo il disegno di Leonardo.

A mio modesto parere potrebbe trattarsi, piuttosto, di disegni di Leonardo che “ritraevano” le tarante viste da lui nell’aquilano, che devono aver colpito la sua immaginazione per la loro straordinaria simmetria.

Entrambe le ipotesi sarebbero confermate da un disegno conservato nel castello di Windsor.  

A ulteriore conferma, sembra inoltre che presso la “Royal Collection” esistano bozzetti di Leonardo raffiguranti Sulmona, il Morrone, la Majella, gli alti picchi del Gran Sasso, tutti su carta di Celano.

La Bottega di Assunta

Ma oggi noi siamo a Campotosto, nell’aquilano, ed entriamo nella bottega di Assunta.

É un luogo che sa di sacro, vetusto e non finto: qui tutto è vero, non è folklore, la stufa economica scalda per davvero, c’è un’aria vissuta, un’atmosfera reale, senti che non è “costruzione”.

Il telaio orizzontale

Anche Assunta è schietta e vera, proprio come le nonnine che le insegnarono l’arte del tessere.

Sono stati forse i suoi studi di archeologa che l’hanno fatta “innamorare” di un antico telaio recuperato per caso in cantina: ma lei non vuole che si dica, lei quasi rinnega la sua vita precedente, perché incontrando quell’antico telaio, e innamorandosene a prima vista, è scattato un totale cambiamento di vita, un ribaltamento di gerarchie di valori.

La bottega di Assunta sembra una piccola chiesa dedicata al suo grande telaio orizzontale, ed è piena di colori e di lane tinte in modo naturale, coloratissimi manufatti di tessitura, borse, maglie, gonne, sciarpe, cappelli e perfino scarpe intarsiate di lana tessuta!

Le nonne di Assunta

Le “nonne”, le sue care maestre, le vecchiette ormai scomparse (l’ultima di 102 anni scomparsa recentemente) sono onnipresenti in bottega e nei discorsi di Assunta.

La loro durezza, la loro fermezza, la loro severità che allontanava ogni effusione, il loro rigore nel tramandare quest’arte, descritto così bene a gesti e a parole: sembrava di vederle.

E difatti sono ancora qui, le “nonne” di Assunta, quelle stesse che quando governavano la casa dovettero bruciare i telai, perché d’inverno era freddo e la legna era finita.

Quelle nonne che tramandavano l’arte del tessere di madre in figlia in nipote, vestite di nero, col fazzoletto sul capo, tipico abruzzese, quelle nonne sono ancora tutte lì, e non solo nelle fotografie appese ovunque sulle pareti, sono proprio lì, presenti, potevi sentirle rivivere nei racconti dei loro gesti.

E allora anche tu ricordi i gesti di tua nonna che batteva la lana dei cuscini: li avevi dimenticati, ma adesso riemergono proprio qui, nella macchina del tempo.

Provare per credere

Qui dentro ti senti immediatamente a tuo agio, come se conoscessi questo posto da sempre: qui si parla di cardi, pannocchie, fusi, rocchetti e tanto altro ancora, in un discorso complicato che si segue a fatica, ma che si chiarisce strada facendo.

Nell’antica arte del tessere val più la pratica della grammatica: e infatti Assunta ci fa sedere e ci indica un sacchetto di lana tutta azzoccata in un angolo, vicino ai cardi (“azzoccata” non è il termine giusto ovviamente, ma è l’unico che mi è venuto): tanti ciuffetti morbidi e separati che ricordano da lontano la lana che riempiva i cuscini e i materassi delle nonne o delle bisnonne, almeno per chi è della mia generazione.

Quando lo dico, Assunta quasi si offende: come? quella dei materassi era lana di bassa qualità, tutta infeltrita! questa invece è pura lana di pecora, pulita e asciugata!

La lana sacra, la lana dalle mille proprietà, la lana che è calda d’inverno e fresca d’estate. Lana, questa preziosa cosa mitologica, così nostra, eppure ormai da noi così lontana.

Oggi la lana sembra non venire più dalle pecore: ha nomi inglesi, e costa così tanto…

E invece la lana qui in bottega è la regina, ed è pronta per essere cardata.

E mo’? Non ho idea di che cosa si debba fare.

E mo’ devi aprire la mano, e prenderne un pugnetto” – dice Assunta. “Quello che ci entra nella mano e niente più: mano piccola, poca lana, mano grande, più lana, vuol dire che hai più forza per cardare”.

Apro il pugno, prendo una manciata piccolina di ricci lanosi, e li appoggio delicatamente sul cardo.

Cardiamo insieme

I cardi sono due tavole, una tavola mobile, da tenere con le maniglie, che ha la faccia interna piena di aghetti piccolissimi. E la tavola di sotto fissa, anche questa piena di aghi piccoli e pungenti come i cardoni selvatici del Gran Sasso.

Il cardo va retto dalle maniglie, con le braccia piuttosto tese, e va fatto un movimento particolare, tipo avanti e indietro (se Assunta legge questo linguaggio così poco tecnico mi spara) in modo che i ciuffetti di lana si aprano sotto gli aghetti.

E così, quando infine alzi il cardo… miracolo!…

… il ciuffetto azzoccato è diventato un pennacchio bianco, morbido come l’ovatta, una piccola nuvola pronta per il fuso.

Guardo il pennacchio che ho appena fatto: è fino fino, più che un pennacchio sembra una fumata di sigaretta. Ma come prima produzione… dai, non ci possiamo lamentare. Leggero come una piuma, lo tengo sulla mano. E adesso?

Adesso… Fila!

Il pennacchio così fatto va poi accostato al fuso. Si tira fuori dalla nuvola di lana un piccolo filo e lo si aggancia alla punta del fuso: infatti il fuso ha un piccolo uncino.

Pennacchio e fuso

Ecco svelato il mistero dei fusi delle favole, con cui si pungono le principesse e subito cadono in un sonno profondo, da cui solo un principe potrà svegliarle.

Chissà se queste favole servivano a consolare le giovani ragazze che imparavano a tessere…

Davanti al telaio si parla spesso d’amore e di matrimonio, e ogni “incidente” prende un significato positivo riguardo al futuro di chi sta al telaio.

Arrotoli e tiri, arrotoli e tiri!!!!” – dice autorevole Assunta, ripetendo le parole delle “nonne”.

Facile a dirsi, ma quando sei lì, ogni tanto … il filo si spezza e il fuso cade a terra.

Quando si spezza il filo…

Guarda fuori, che passa il tuo innamorato!” dice Assunta ridendo.

Infatti si dice che “quando cade il fuso, passa lo sposo“. È così che dicevano “le nonne”.

Anche questo era sicuramente un modo per consolare le ragazze che imparavano a filare, per non farle scoraggiare dal fatto che il filo… hai voglia a dire arrotola e tira, arrotola e tira, quello, ogni tanto… si spezza.

Ridiamo, perché il fuso cade e ricade, ma fuori non passa nessuno sposo, anzi, passa qualche ultranovantenne col bastone che sta pensando ai suoi acciacchi…

Ma intanto chiacchieriamo e proviamo, proviamo e chiacchieriamo, e si parla di pecore, di allevatori, di tutta gente che non ha mai il cognome: si chiamano “Pasquale di Marana”. “Pietro che tiene i muli” o “Giovanni di Pagliare”. Nei paesi ti identifichi per la terra in cui nasci, o dal mestiere che fai.

Poi vedo sul tavolo uno strano attrezzo, è fatto di ferro nero, sembra il becco di un uccello e chiedo che cos’è.

Mi guardano tutti stralunati: “come? non sai che cos’è?” Ehmmm, veramente, no

Sono forbici per tosare le pecore!”

Allora io, che non sapevo che quello strano becco d’uccello fosse un paio di forbici per tosare le pecore, mi sento come la professoressa di Barbiana che non sa riconoscere un ciliegio, lo chiama “albero”, e tutti ridono.

Lé tondéi i ch’én vignon i tondon, i tondon!

Ed è lì, davanti a quelle forbici, che il discorso va a finire… sui Maori.

I Maori tosano le pecore, sono bravissimi e vengono chiamati dalla Nuova Zelanda in Abruzzo perché qui nessuno è bravo come loro.

Sono velocissimi, riescono a tosare intere greggi in pochi giorni.

E così Assunta ci racconta di quando li ha visti al lavoro, e lo fa con dovizia di particolari.

Allora ci chiediamo perché quando cade il fuso non passano questi giovani neozelandesi, invece dei vecchietti.

Ridiamo di cuore, e ci diamo appuntamento alla prossima volta, per finire il lavoro.

Finisce così anche questa bella avventura, e riprendiamo la macchina per iniziare la discesa verso L’Aquila, chiacchierando.

Annalì, ci andiamo a vedè i Maori che tosano le pecore?

Eccerto che ci andiamo

Aaaaahhhhh … lo vedi che ci sono cose più belle dei muli?

Beh, non esageriamo”.

Ecco, lo sapevo”.


Luisa Nardecchia

SITOGRAFIA

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L’ultimo lanificio che rischia l’estinzione

Le vie della pastorizia tra Abruzzo e Puglia e l’arte della lana che portò Leonardo a L’Aquila

Tutti i legami con l’Abruzzo di Leonardo da Vinci

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