Il programma di Ricostituzione del Suino Nero Cinghiato è stato finalizzato al raggiungimento di un obiettivo preciso: far rivivere nelle campagne Nursine una razza antica presente, come mostrano le numerose testimonianze iconografiche, già dal XV secolo. L’attività del Parco Tecnologico Agro-Alimentare Umbro, in piena sinergia con il DSAAA dell’Università degli Studi di Perugia, ha permesso di ottenere ad oggi buoni risultati improntando il progetto non solo su di una linea prettamente selettiva ma aprendo la strada ad una valorizzazione del prodotto carne nel mercato locale. La Regione Umbria è stata parte attiva in rassegne divulgative e convegni di settore per ridare valore e speranze ad un territorio dove le antiche tradizioni locali stanno gradualmente scomparendo, tutto a discapito dell’Agricoltura autentica di queste popolazioni. La strada è ancora lunga per poter rivedere questa “Razza” distribuita nell’areale di appartenenza, ma di certo non mancherà l’impegno da parte dei proponenti nel valorizzarla a livello locale con azioni specifiche ed interventi mirati alla ripresa della suinicoltura tradizionale volta soprattutto alla riqualificazione di quelle aree boschive che difficilmente troverebbero altra destinazione d’uso e che tanto si adattano all’allevamento brado o semi-brado.
[…] In principio era il bosco e così è rimasto in Europa fino all’alto Medioevo. Una densa copertura forestale rivestiva sommità e crinali dei rilievi e occupava anche larga parte dei terreni pianeggianti; proteggeva i suoli dall’erosione dell’acqua, forniva rifugio e alimento alla fauna selvatica, costituiva anche l’ambiente ideale per l’allevamento degli animali addomesticati dall’uomo, in particolare dei porci affidati alle cure del porcaro, tanto che in epoca altomedievale le dimensioni e il valore di un bosco non erano calcolati in base alla superficie, ma al numero dei porci che potevano alimentare.
Il primato del maiale come animale da cibo si afferma con lo stanziamento delle popolazioni germaniche, e dei longobardi in particolare, che impongono il loro modello alimentare basato sul grasso animale, sovvertendo la preferenza attribuita dai romani agli ovini, che mantengono il predominio nell’area meridionale del paese per motivi climatici e per condizioni ambientali, caratterizzate dalla prevalenza dei pascoli naturali rispetto ai boschi.
Questo primato è stato favorito anche dalla semplicità dell’allevamento dei porci, dalla maggior resa in termini di carne rispetto alle altre bestie “minute” e dalla possibilità di una lunga conservazione dei prodotti ricavati dalla lavorazione dell’animale, utilizzato in tutte le sue parti, praticamente senza scarti.
I procedimenti di conservazione attraverso la salatura, l’affumicatura e la “investitura” assicuravano una riserva alimentare fondamentale per la sopravvivenza delle famiglie contadine, tanto che un’espressa disposizione dell’Editto di Rotari vietava il pignoramento dei porci.
Le bestie “grosse” erano impiegate soprattutto per alleviare la fatica dell’uomo e modesto era quindi il loro consumo alimentare: i bovini venivano utilizzati per i lavori agricoli oltre che per i trasporti, assieme a muli ed asini. Per lavori e trasporti erano impegnati anche i cavalli, che godevano di particolare prestigio come cavalcature militari.
L’alimentazione carnea soprattutto nell’area Centro-Nord del paese, oltre che sulla selvaggina, si basava pertanto sul maiale, che a sua volta si nutriva principalmente delle ghiande dei querceti e dei frutti de “l’albero del pane”, le castagne, disponibili però solo dopo che l’uomo aveva soddisfatto il proprio fabbisogno. Libero era invece il pascolo nei boschi di castagni selvatici, le porcinete, come vengono citate nei documenti dell’alto Lazio.
La situazione muta in epoca tardo medievale quando, per sostenere lo sviluppo delle città e delle attività produttive, sulla spinta dell’incremento demografico, prende avvio una sistematica azione di disboscamento al fine di ricavare, da un lato, la materia prima, il legno, necessaria per la costruzione di edifici e di imbarcazioni, per l’arredamento, per gli attrezzi e i macchinari, per l’energia e il riscaldamento; dall’altro, di strappare al bosco, “con il taglio, il morso e il fuoco”, terreni da dedicare ai seminativi e ai prati-pascolo. Tornano in auge le bestie “minute”, in particolare, le pecore che, oltre alla carne, procurano lana per l’abbigliamento e latte per il formaggio, mentre le risorse fornite dal bosco diminuiscono al punto di proibire e punire, soprattutto a partire dal secolo XIV, l’uso di scuotere gli alberi per far cadere i frutti.
Le citazioni raccolte da Emilio Sereni nella sua “Storia del paesaggio agrario italiano” rivelano che la degradazione del paesaggio collinare e montano nell’età del Rinascimento era ben presente in attenti osservatori come Leonardo da Vinci che avvertiva che “li monti sono disfacti dalle piogge e dalli fiumi“, mentre Pietro de’ Crescenzi raccomandava l’adozione di appropriate tecniche di lavorazione dei terreni altrimenti la terra “sarebbe tutta portata via dalla pioggia alla valle quand’ella discende con empito dalla pendice al monte”. Anche Leandro Alberti denunciava nella sua Descrittione di tutta Italia i pericoli dell’eccessivo disboscamento, che assumerà nei secoli successivi proporzioni allarmanti.
La storia completa del recupero della razza è disponibile scaricando il file completo redatto dai promotori del Progetto.
Per maggiori informazioni: PARCO 3A -Umbria